I regali del caso

Sono appena tornato da sei giorni di viaggio. Io, l’autista, il traduttore e le strade sassose dell’Afghanistan. Finalmente di nuovo sulla strada.

Siamo andati in alcune regioni lontane, nella provincia di Bamyan. Dove una volta dimoravano le grandi statue dei buddha che sono state distrutte dai Taleb. Non c’è elettricità, rete telefonica e tanto meno internet. E’ una terra di pastori e agricoltori, dove si lavora ancora con le mani nude. Il viaggio è stato stancante ma bellissimo. Mi riempio gli occhi di bellezza e umanità.

Questo è il motivo per cui non ho potuto commentare prima questo bel post di Alice.

Il caso qui lo chiamano Allah. Ed in qualche modo lo si sente più vicino, si vive costantemente in balia degli eventi. Tutto può succedere e la mia mentalità di occidentale a cui piace pianificare il lavoro, in queste terre brulle deve dare spazio alla creatività. Inshallah, se Dio vuole. Questo è quello che dicono, e questo è quello che bisogna imparare se si vuole sopravvivere. Possiamo programmare le cose ma la nostra auto, tenuta assieme da nastro adesivo, potrebbe rompersi ad ogni curva o potremmo non trovare un posto dove passare la notte. Ma Allah si è preso cura di noi in questo viaggio, tutto è andato bene. E abbiamo incontrato tanta gente che ci ha offerto mele, latte, yogurt, tanti sorrisi e tanto tè.

Si deve convivere con il caso in posti come questo. Ma qualunque donna o uomo che abbia mai affrontato il processo creativo con coscienza e disciplina si è reso conto che il caso è cruciale anche in questo.

Sono anni che cerco di capire come migliorare il mio lavoro di fotografo, e continuo a farlo ogni giorno, ci sono ancora tante domande a cui non ho trovato risposta. Ci sono una serie di cose che si possono imparare come la tecnica, il mestiere, la coscienza della luce.

Ma quello che veramente conta in una foto, deve venire, non può essere completamente premeditato. Il punctum, un sottile atteggiamento del soggetto o qualcosa che arriva all’improvviso nell’inquadratura, il valore vero di una foto, che ci spinge dall’altro lato, oltre alla mera coerenza tecnica. Le cose devono succedere. Possiamo essere pronti, ma non possiamo sapere quando e come.

E soprattutto non possiamo sapere se arriverà. E questa è la fede dell’artista: nel caso, o nel Dio, o nel proprio talento. Il legame fra la creazione artistica e il misticismo è proprio quello che alcuni chiamano caso, altri Dio a altri talento.

E ci sono dei momenti in cui lo sentiamo, la foto è lì, davanti a noi, è un dono che è arrivato da chissà dove e dobbiamo essere abbastanza bravi a fissarlo sulla pellicola, il più delle volte senza successo. I doni sono talmente tanti, i doni del caso, o del Dio, che non possiamo nemmeno avere il tempo o la destrezza di fissarli tutti.

Il mondo è pieno di doni, sono talmente tanti che non avremo mai tempo di poterli ricevere tutti. Il nostro compito è soltanto quello di imparare a vederli, a riconoscerli, come messaggeri. E quando si incontra il messaggero possiamo riconoscerlo e invitarlo ad entrare, spendere un po’ del nostro prezioso tempo con lui o possiamo scacciarlo.

Al tempo del liceo ho speso tanto tempo, la “ricreazione”, a guardare Alice. In realtà non avevo aspettative, era troppo grande per me: lei era in quinta e io, penso, in terza. La guadavo e basta, solo perché era bella, avevo sedici anni. Io e Gento, il mio compare sulla scala, la consideravamo un specie di diva del cinema.

Ne io ne Alice, sapevamo cosa ci avrebbe portato questo strano gioco della scala. Queste sue parole, sono quello che ha prodotto, chiudendo il circolo dopo tanto tempo. Facendomi ritrovare un’amica e facendomi ricordare tutti doni che il caso mi da ogni giorno.

Marco, Cristo e la fotografia

Quando Marco ha incontrato Cristo gli e’ stato detto che la fotografia non e’ poi cosi’ importante. Per Marco, come per me, la fotografia e’ la vita, e’ tutto quello che abbiamo, dove mettiamo tutte le nostre energie.

Ma allora quale’ il senso di tutto questo? E’ vero che non stiamo parlando del Cristo di Nazareth ma di un altro, nato in Russia, e che al momento vive in un villaggio isolato della Siberia. In qualche modo il suo parere potrebbe valere di meno?

Sappiamo bene che tutto contiene il tutto. Si dedica la vita alle cose piu’ disparate, ad allevare i cavalli, a coltivare la terra, a fotografare, ad ammucchiare soldi.

Non ci sono veramente delle categorie per definire cosa sia piu’ importante, piu’ appassionante. Ogni persona che incontriamo ci racconta la sua ossessione.

Io continuo a pensare alla fotografia, a come fare meglio, ma e’ vero che se rimane un mezzo e non un fine puo’ portarci lontano, come tutte le altre cose.

E’ un po’ di tempo ormai che cerco di fare meglio nella fotografia, e alle volte penso di avere esaurito le strade. Con il tempo pero’ mi sono reso conto che c’e’ un’unica strada. L’unico modo per migliorare le nostre foto e’ essere persone migliori. Non sto parlando di avere successo, ma di essere sinceri. Possiamo scimmiottare quello che vorremmo essere, ma quando saremo, senza cercare altro, si vedra’ nelle fotografie come nei gesti.

Sto lavorando ad un libro fotografico per una ong in questo momento. E di nuovo mi viene da pensare come tutto contiene il tutto. Ogni singola immagine del libro e’ il fine e allo stesso momento il pezzo di un racconto piu’ ampio, una nota durante un viaggio, prendera’ un significato che non conoscevo quando sara’ parte di quel libro, un significato che non conoscevo mentre stavo scattando. Ogni singola linea, sguardo, ombra e’ il fine e il pezzo di una struttura.

Allora la fotografia non e’ importante, e’ vero. Non saremo fotografi sinceri fino a quando non ci renderemo conto che e’ soltanto un gioco, il gioco delle linee e delle ombre. Poi ci renderemo conto di come qualunque mestiere sia lo stesso, un mezzo per arrivare a qualcosa d’altro, l’essere.

Il significato, e Alberto

Kabul 16 giugno 2010

Per le strade polverose va una bicicletta, cling, cling. I bambini giocano e fiumi di bambine dal vestito nero e dal fazzoletto bianco camminano verso la scuola. In questa citta’ antica e nuova alle volte i significati si intrecciano. E’ difficile capire cosa e’ pericoloso e cosa no.

Io continuo a cercare il significato. La mia fotografia e’ partita da un’ideale forse anche dall’attivismo e ora, incontrando Alberto, mi rendo conto di quanto sono diverso in quello che cerco. Ma guardandomi indietro mi rendo conto che sono state sempre li’ davanti a me le cose che ho inseguito, e sarebbe stato semplice ad un occhio attento riconoscere che non e’ un ideale che sta sotto alla mia fotografia, e che non lo e’ mai stato.

C’e’ una differenza, un volto che alle volte appare meschino nell’arte. Una separazione insormontabile fra le idee, le ideologie e l’arte. E alle volte si vorrebbe riunire, fare vivere insieme queste due entita’. Ma sempre di piu’ mi rendo conto di quanto siano separate. L’arte viene da una fonte diversa dell’ideologia e dalla nostra razionalizzazione di cosa e’ giusto e cosa e’ sbagliato. Viene da una relazione mistica con qualcosa di innominabile e altro rispetto all’evolvere degli eventi.

Il giornalismo, il racconto dei fatti dell’uomo deve essere filtrato da una razionalita’ vigile, lucida. Non sono veramente interessato a questo tipo di progetto. E questo rende la mia posizione pericolosa, ambigua, ma anche carica di punti di vista inesplorati soprattutto in questo paese.

Alberto e’ un giornalista spagnolo, al limite fra l’attivismo e il documentarismo. Ha vinto premi, ha attraversato guerre, ha una grande esperienza e una grande dolcezza negli occhi. Mi sento a mio agio con lui, ci riconosciamo come simili, ma ad un certo punto questa differenza della fonte della nostra ricerca mi colpisce.

Ma d’altronde io non sono di la’, sono ancora nell’ambiguo limbo fra un fotogiornalista e qualcos’altro. La sua aspirazione e’ di tornare a casa con uno scoop nella borsa io con un’opera d’arte. Ma lui lo ha sempre saputo cosa voleva, ha seguito l’idea che ci si aspetta di un giornalista preparato e ha saputo eccellere nella sua ricerca, e certamente andra’ a casa con cio‘ che vuole. Io ho ancora tempo da spendere per trovare la chiave arcana, che sta’ piu’ in profondita’ della superficie delle storie. Quella chiave che non appartiene alla storia ma al ritmo narrativo.

Ci lasciamo al tramonto, non posso nascondere una certa ammirazione per la sua ordinata professionalita’. Ma sono felice di continuare a percorrere la mia strada lentamente, senza inseguire le foto che mi renderanno famoso. Ma spettando che vengano da me, sincere, che mi catturino insieme al loro significato.

Bureaucracy

Kabul, June 7, 2010

I’m working on a story about the Afghan bureaucracy. I’m quite stuck. First of all because it’s hard to have access to photograph in the ministries, and second because it’s not clear to me what I want. It could be a portrait story. It could be about the places. The subject is quite dull itself, visually there is not much there, this is exactly the kind of story that can come out really bad. I’m taking pictures of offices and bureaucrats.

I want to use this post to collect my ideas.

It could be interesting to capture the stratifications of the many empires that conquered this land and in turn tried to reshape its istitutions. Russian buildings now inhabited by market oriented, American trained bureaucrats.

In my work I would like some of the atmosphere of Guy Tillim’s Avenue Patrice Lumumba, the surrealist and paradoxical nightmare of Kafka’s “The trial”, as well as my omnipresent obsession for the mood and the light in Majoli’s work. I see the story in color, medium format kind of photography, sharp, silent. I don’t want portraits with somebody staring at me from a desk. Maybe I can ask them to pretend they are working (I can not hope for something real in a 30 minutes tour with two people that tell me what can I photograph and 5 minutes in a single office, as usual what the photographer will try to achieve is an illusion that resembles reality). Public officers are really concern about security. I’m not allowed to photograph most of the places. They are scared the pictures can be used to stage attacks on government buildings.

It’s more or less two days that in separate moments I try to write this post. I was hoping that the act of writing would have materialized some ideas. And that was exactly what happened!

I can focus this story on the Russian made building, the overlapping images of old building and new yuppies, and teas and afghan handshaking and huggings and power  boastings and salam aleikums and tea again. Everything is already there, I just need to put it together, slowly, a tea at the time, following the slow pace of Kabul. A pace that is sometimes painfully slow, considering the many holidays of the government employees. I already try last time to work on this story but there wasn’t time enough.

I need to go in there with some ideas in my mind to play around, but I also know that a story can then take a life of itself an end up with something completely different. I will try to let it flow as much as I can. Inshallah.

p.s. I strongly suggest to read this article, it’s a good picture of what is going on in Afghanistan and what the outcome of this war will be.

Click!

Kabul 2 giugno 2010

L’unico modo per fare una foto sincera, e’ lasciare che sia lei a venire da te. Occorre tempo e fede. Credere che arrivera’, ed essere pronti ad accettarla. Se abbiamo fretta cadiamo nei soliti trucchetti, nei soliti chiches. E’ la nostra mente che costruisce l’immagine e non la nostra anima, la mente ha bisogno di riconoscere gli schemi che manipola, e ci ritroviamo a costruire immagini che sono il ricordo di altre belle foto che abbiamo visto.

Una foto sincera non e’ per forza una bella foto, ma sicuramente chi sa guardare la riconoscera’. Puo’ non essere una buona foto per i nostri canoni del momento ma un giorno lo sara’, quando avremo imparato a capire il valore del nostro lavoro in relazione al nostro cuore e non in relazione al lavoro di altri.

Perche’ le foto vengano da noi serve tempo, e a volte e’ difficile trovarlo. E soprattutto alle volte dubitiamo, la nostra fede vacilla.  Ma questa e’ l’unica vera cosa che dobbiamo fare, il tempo si trovera’ sempre se ci rendiamo conto che non c’e’ nient’altro di piu’ importante da fare che questo.

Sono alla ricerca di un approccio diverso alla fotografia. Sotto alla pelle delle immagini. Invece di procedere assemblando linee e spazi dentro l’inquadratura, si parte da un’idea che viene da dentro e si cerca di dargli un senso compiuto.

Lasciare andare, essere tramite. Lascia andare, me lo ripeto alle volte mentre fotografo in questi giorni.

Tutto e’ permesso, non ci sono regole, solo quella della coerenza dell’opera. La foto puo’ nascere da qualunque idea, il compito e’ quello di renderla coerente in termini di inquadratura ed esposizione, e di prestare attenzione ai dettagli.

La pratica della fotografia e’ meno stressante in questo modo. Non ho bisogno di adeguarmi a nessuno schema preesistente, e’ una procedura che attinge a qualcosa di piu’ profondo dell’esperienza visiva. Le foto devono venire da me, non posso forzarle, sarebbe una violenza inutile e nociva. Devono venire naturalmente, o non venire affatto.

Ma cosa manca ancora? Quale’ il prossimo passo? Piu’ in la’, oltre l’ordine delle forme e delle linee c’e’ il “gesto”. Uno sguardo, un movimento, un colpo di vento che solleva le tende, una bimba che salta in una pozza di luce proprio al centro dell’inquadratura. Il “click” che rende una buona inquadratura, una foto ecellente.

Il “gesto” e’ il fulcro principale dell’immagine, la struttura dell’inquadratura, la corrispondenza delle forme e delle linee, non fa che rafforzare il gesto, sottolinearlo.

Ci vuole grande concentrazione. E quale’ il modo? Si sistema il palcoscenico delle linee e si aspetta che arrivi o, al contrario si segue il gesto e si sistema il resto.

Non c’e’ un modo, ci sono mille modi, l’unica regola e’ quella di aspettare, essere pronti, avere fede, sapere riconoscere il fotogramma che si sta’ formando danti a noi, smettere di pensare e…. click!

Mudwalls

26-05-10 Kunduz

After a brief visit to Kabul and some days in Maza-i-Sharif also my visit in Kunduz is over.

I can’t really say I’m sad of leaving Kunduz. I don’t feel good vibrations here. This city is one of the most conservative of the north. During a security training we have been told there is a real possibility the Taliban could take control of the city and all the international workers need to be evacuated.

Out of the armoured car runs burka-clad women, markets, and wheat plantations. I try to catch some with my camera. A simple walk through the city is simply impossible for security reason. Is hard to get some glimpses of the real life of the Afghans.

(They wear slippers all the time, I saw Afghans wearing slippers on every climate or terrain. Ready to be taken off at the entrance of a house. I spend most of my time here putting my shoes on and off.)

Another big luxury is being out after 6pm, when the fierce sunlight start fading and pink and blue fill the air. So most of the time I’m photographing in the middle of the day.

Today I’m in Taloqan, somewhere in the north. Here is safer. But forget about the all rules of photo-journalism: spend time with the people, be part of the environment. We drive into the middle of the market, with and armoured car and I have 20 minutes to photograph, with an escort of hundred of children with me. Forget about being invisible.

Sometimes I feel my idea of photography is different from what people expect from me. What is my idea? Probably something natural, taken from everyday life. Images that comes from sharing with my subjects. But I don’t share much here. I don’t speak the language and I can not spend much time with anybody.

It’s not really a big deal, it’s just hard, I need to work little by little with what I can get. Anyway my work here is great, I love it. I get to see places that would be impossible to access otherwise. And I’m paid to photograph and travel so I couldn’t ask more.
I’m not completely convinced that this work is ethically correct. Working for a development agency means being part of what we westerner are doing here. I met this consultant in a guest-house. We talked about the international aid. “Most of the time” he tells me “medias are reporting pleads for an increase of development spending, but it’s not more money that would solve the problem”. These agencies are usually desperate to spend money. They receive funding for their projects and if they don’t spend everything they will receive a smaller amount the following year. Funnelling all this money in one of the poorest country on earth create huge corruption and unbalances the market. The prices are booming because a new elite of riches is created.

Often these agencies need to follow standards related the their home country. You can imagine how much can cost to build an house with German construction standard in the middle of Afghanistan.

Cooperation is a big, big business. Most of the workers are willing to help the population but is the whole system that seems to make it impossible.

And then there is our cultural colonization. What we are doing here is turning this country in a market economy, and teaching them our way of living. And I’m just not so sure ours is the best possible way.

Northern Afghanistan is mainly cultivated on rice and wheat. Along the way you can see farmers cutting wheat slowly with their sickle or boys sitting on a ox-pulled plough. They work their land the same way they did centauries ago. Most of the population live in mud houses villages with no running water or electricity.

I’m walking again along a muddy path with my friend, the consultant: “Sometime I sak myself what are we doing here” he sais “and I feel like we should just pack our bags and go home”.

Londra-Dubai-Kabul-Mazar

Mazar-i-Sharif 20 maggio 2010

Tornato a casa dal mio primo viaggio in Afghanistan ho preso un po’ di tempo. Ho cercato di escogitare strategie che mi permettessero di vivere di fotografia e di tornare in Afghanistan. Come al solito pero’ le cose seguono un corso che non premeditiamo.

“Non sembri cambiato per niente” mi ha fatto notare un mio caro amico. E infatti l’Afghanistan non mi ha cambiato. E’ stata Londra ad ingoiare la mia macchina fotografica, i miei obbiettivi, e migliaia di euro di affitto. E’ la routine quotidiana la vera sfida di ognuno di noi. E’ questa che lentamente sta aprendo il mio cuore e i miei occhi.

E poi un giorno, una mail da un amico di Kabul mi ha fatto tornare a viaggiare. Senza volere, naturalmente.

Invece di essere stato cambiato dall’Afghanistan, mi trovo qui’ a riflettere su quanto sono cambiato dalla mia ultima visita.

La volta scorsa non avevo un lavoro, ero aperto a mille progetti senza la speranza di finirne alcuno, ed ero pieno di idee roccambolesche su come sarebbero state le mie foto.

A Londra ho cercato di scrivere, di riconnettermi con la realta’, di imparare a vederla e ad accettarla. La stessa cosa con le mie foto. Forse la cosa piu’ importante che mi e’ successa riguarda proprio quelle. E’ successo pochi giorni prima di partire.

Ho capito che tutti i miei modelli fotografici, i miei fotografi idolo, e le idee per costruire delle buone foto sono soltanto il punto di partenza. Il punto di arrivo e’ me. Non voglio rinnegare niente ma voglio credere profondamente nelle mie idee. Voglio smettere di pensare che non sono abbastanza ma ascoltare il mio cuore e lavorare da bravo artigiano per realizzarle con cura. Spesso i fotografi si trovano davanti ad una situazione e la trovano non abbastanza. Ma e’ soltanto un’illusione, il mondo davanti a noi semplicemente e’, esiste, i canoni estetici o morali sono la nostra proiezione su di esso.

Oggi ho affrontato il mio primo giorno di lavoro. Sto documentando le attivita’ di una organizzazione di sviluppo tedesca. E’ un lavoro meraviglioso, mi pagano e mi rimborsano le spese del viaggio. Senza avere fatto niente di particolare per meritarmelo mi sono trovato in Afghanistan a fare il lavoro piu’ bello che mi sia capitato nella vita.

La giornata e’ stata lunga, siamo partiti alle 4 del mattino per fotografare le donne che mungono le mucche. Certo, la luce, a quel ora, ripaga ogni fatica. Questo e’ il paese della luce, della polvere, dei mille bambini scalzi e dei sorrisi di cuore e pieni di ruge.

Sto leggento “i figli della mezzanotte” e’ un libro meraviglioso.

Dopo 12 ore in giro a fotografare non posso pretendere di scrivere in modo fantastico.

Il mio viaggio da Londra e’ stato rocambolesco. Ho speso tre giorni a Dubai. Per chiunque non ci sia stato posso descriverla come un centro commerciale in mezzo al deserto, le sensazioni che si provano visitando un centro commerciale sono quelle che si provano visitando Dubai, ne piu’ ne meno.

Ho fatto il visto per l’Afghanistan e sono stato ad un barbecue con degli amici inglesi, il loro accento e la mancanza di salsiccie e birra (entrambi illegali negli Emirati) dava un senso di estraniamento all’intera serata.

Poi Kabul, ho incontrato il mio vecchio amico designer di tappeti (lo stesso a cui devo questo lavoro che sto facendo) e sono stato invitato ad un’altra cena estarniante.

Dietro ad un cancello blu, in una delle strade polverose di Kabul siamo entrati in una casa meravigliosa, arredata con gusto occidentale ma mobilio afgano. L’intelighenzia di kabul, una designer di vestiti, una insegnante di teatro iraniana, una scrittrice di sceneggiature per la tv afgana, poi un americano dal look artistoide che non ho ben capito bene che facesse, e un banchetto tipico afgano. La serata procede fra il farsi, il francese e l’inglese e poi il mio amico Rahim mi fa accompagnare alla sua galleria dove spendero’ la notte con il vecchio guardiano. Altro capitolo che meriterebbe una descrizione a se stante. La galleria e’ arredata con grande gusto, l’edificio e’ stato fatto costruire appositamente con una mistura di malta e paglia secondo la tradizione afgana. Siedo nel giardino interno, alla luce della lanterna, sopra di me un cielo che brilla di migliori di stelle.

Il mattino dopo raggiungo Mazar su un aereo militare tedesco. Gente dalla tuta mimetica verde e  dai lunghi e neri fucili.

E ora eccomi qua, cerco solo di stare attento ad esporre bene e ad inquadrare. E a continuare ad andare. Domani sveglia alle 7.

Eid

I really feel good in Afghanistan, people are nice and easy. Walking around Kabul often happened that the owner of a shop invite you for a tea. They don’t mind much if you don’t buy anything, they just like to talk. I don’t know how to say thanks. So I take a picture and then I give it to them. I bought a Polaroid camera. Here people (not women obviously) love to have their picture taken. So I’m a goddam photographer and I give you a picture. It cost me just one dollar to make a new friend.
I was this reformatory in Herat. The children didn’t want me to take pictures of them. They were playing of course, but the question was clear: what are we getting back? So, here we are, my Polaroid camera make a picture for you and I will get some pictures for me.
Afghans are really sweet, I constantly run around and they keep looking at me like: “where are you running? sit with me, have a tea, lets talk”. It seems to me that for them, the prototype of the wise man is somebody who is just sitting all day, who have a squad of assistant that do everything for him, and he just need to use his wisdom to carry on his business. In fact their favorite place is the market. If you are a stall owner you basically sit, have a tea with customers, listen to stories of children and weddings and wars and then sometime you sell something, or you send a boy to get more tea for you and your guests.
In the last days I have been at odds with this over-relaxed way of living. I don’t have many days left in the country and what happened is EID. This is a really important religious holiday for Islam. Basically they are celebrating the prophet Ibrahim, God asked hid to kill his son Ismael as a proof of his faith but at the last minute, change his mind and ask hit to kill a lamb instead. So what happened here is that everybody kills a sheep or a cow or whatever they have. But my problem was that they also not work for 4 days and most of them keep it long to more than a week. So the city was completely paralised, nothing to photograph, and I of course run out of gas for the heating system. But luckily I found something to keep me busy: the biggest cold in years, that keep me home for 4 days. Still many people are on holiday: back to their remote villages for the poor, outside the country in India or Dubai for the rich. So I’m desperately trying to meet people for the two stories I’m still working on, but it’s a real struggle.
As for the cold I’m getting better, also thank to guy in the pictures above. Today I walked in the pharmacy and there was this 8 old year boy working there, alone. I was looking around in search of his father or an older bother and then he explained me (through my driver) that he was alone there and he asked what was wrong with me. So if the prescription of the little pharmacists work I’ll be fine in a couple of days. Many westerners I met buy their medicine abroad, and they don’t trust the locals. I don’t know, the little guy seems cool.
It’s hard to be a children in a country like Afghanistan. In every shop or stall, you find a child, working from early in the morning, sometimes along with an adult, but most of the time alone. In this country you work hard when you are young, as long as you don’t have children on your own, and you can have them make the job for you. I mean, it’s normal that an adult help his own family, but here you become an adult when you are just 7.
If their family run some kind of business they work there. Some of the working children in Kabul are from really poor family or are refugees escaping the war in the south and the east. They beg or sell little goods or clean shoes. And they usually work all day and make 2$ at the most. Some of them are the only male left in the family so the only one allowed to work outside the house.
And, I forgot, there is no city power, that means after 5pm I live in complete darkness, I cook using a penlight in the back of my lighter, and I go to my neighbours to charge my laptop. That’s cool, the real war photographer struggle I was dreaming about. ☺

Obama gave tonight his speech on the future of the american strategy in Afghanistan:
http://www.nytimes.com/2009/12/02/world/asia/02prexy.text.html?_r=1&pagewanted=print
here you can find some hints about why it will be really hard to reach the quick solution in Afghanistan he outlined:
http://www.opednews.com/articles/Americans-Are-Deeply-Invol-by-Glen-Ford-091129-86.html

Servire la patria

Herat

La scorsa settimana sono stato a Herat. In questa citta’ vicina al confine con l’Iran si trova parte delle attivita’ della cooperazione italiana ed e’ raggruppato il grosso delle nostre truppe.

L’organizzazione di tutte queste diverse attivita’ e’ complessa e non mi interessa molto andare nel dettaglio.

Quello su cui si e’ inevitabilmente portati a riflettere e’ la natura della nostra presenza in Afghanistan. Il motivo ufficiale e’ che stiamo aiutando a pacificare il paese, portare democrazia e finanziare le operazioni di ricostruzione.

E a dire la verita’ la maggior parte degli italiani che ho incontrato stanno facendo esattamente questo. Ho incontrato cooperanti competenti che portano avanti progetti di alfabetizzazione ed avviamento al lavoro delle fasce piu’ deboli. Ho incontrato militari che lavorano per costruire scuole e ospedali e medici e infermieri che lavorano ogni giorno per curare gli afgani.

Ma le scopo finale del nostro intervento non e’ quello di aiutare questo paese ma di servire gli interessi del nostro. Alle volte le due cose combaciano ma non sempre, e spesso questo particolare sfugge nel racconto del nostro intervento in Afghanistan. Quali sono gli interessi dell’Italia? Perche’ siamo qui’? Siamo qui’ per combattere una guerra contro il terrorismo. In seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno deciso di procedere con l’occupazione militare di questo paese e noi siamo arrivati per prevenire attacchi simili sul nostro e aiutare un alleato importante.

Dove si inseriscie in questo schema lo sviluppo e la democratizzazione del paese? La nostra missione qui’ non e’ nata dalla necessita’ di aiutare l’Aghanistan ad uscire dalla guerra e dalla poverta’. Ma ovviamente e’ necessario costruire un sistema di potere e avere un livello di poverta’ non troppo elevato per poter governare un paese. E gli aiuti umanitari, nell’ultimo secolo, sono diventati di dovere dopo un’occupazione militare nonche un’industria che da lavoro a moltissima gente.

Allora perche’ dopo 8 anni il 45% percento di questo paese vive ancora con meno di 2 dollari al giorno?

Gli interventi che hanno una maggiore rilevanza mediatica sono privilegiati anche se altri avrebbero un impatto piu’ importante sulle condizioni di vita degli afgani. E questo e’ perfettamente comprensibile se partiamo dal presupposto che noi non siamo venuti qui’ per aiutare gli afgani ma per condurre una guerra nei confronti di un gruppo terroristico (Al Qaeda) che non e’ piu’ basato da tempo in questo paese.

Sono stato in un campo profughi alle porte di Kabul qualche settimana fa, la maggior parte degli occupanti vengono dal sud del paese dove infuriano i combattimenti. Per ora siamo arrivati a -6 di notte a Kabul e questi vivono in case di fango con una coperta come tetto, quindi quando piove, come oggi, mi viene sempre da pensare a quei poveri cristi che stanno sotto l’acqua e al freddo.

Non sto raccontando niente di nuovo, le politiche umanitarie sono portate avanti con piu’ forza in alcune regioni del mondo e meno in altre a seconda di vari livelli di interesse. Se si e’ abbastanza fortunati da nascere in una regione geopoliticamente interessante si verra’ aiutati, altrimenti si muore.

Non voglio certo dire che i nostri “ragazzi” stanno facendo un cattivo lavoro da queste parti. Voglio dire che si potrebbe fare meglio ma questo non e’ certo a causa loro ma a causa della macchina di cui siamo tutti parte e che ha bisogno di carburante per funzionare. E alle volte non ci si puo’ permettere di aiutare tutti, e quindi li si lascera’ al freddo e senza cibo, come succede a meta’ dei 28 milioni di persone che vivono in questo paese. La logica schiacciante di questo discorso viene a vacillare soltanto quando camminiamo in quei campi profughi o incontriamo quei bambini che lavorano 12 ore per la strada per guadagnare 2 dollari. Allora tutto non ci sembra piu’ cosi’ logico, rimane un sentimento di umanita’ in noi che ci porta a pensare che c’e’ qualcosa di malsano in tutto questo.

E io non sto scrivendo per indicarvi i colpevoli o dare la soluzione del problema, io di lavoro vorrei fare il fotografo, il mio lavoro e’ vedere, e quello che vedo qui’ sono le centinaia di dipendenti delle organizazioni internazionali che guadagnano 20000 dollari al mese e gli amici al campo profughi che non hanno neanche un telo di plastica per coprire la loro baracca. Non ho la soluzione, magari se vi avanzano 30000 dollari potreste assumere uno dei consulenti delle Nazioni Unite per scoprirla e poi fatemi sapere.

E ovviamente noi giornalisti non siamo fuori da questo gioco, gli interventi umanitari sono pane per i nostri denti, e il nostro fotografare i soldati italiani che donano il riso agli afgani e’ parte dello schema. Il nostro apporto per dare legittimita’ ad un sistema che fin’ora non e’ stato in grado di pacificare questo paese. Il nostro contributo al servizio della patria.

God

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Herat

Here in Afghanistan often happened to see people praying. Sunni Muslims are supposed to pray 5 times a day at certain times.  The first pray is around 5 in the morning and if you wake up early you can hear the call of the muezzins all around Kabul. This is the better time to hear it, the city is still silent, the air is filled with these chants and the sun is rising.

5 times a day is quite a lot, it’s more or less every 3 or 4 hours. It’s sounds to me like you are trying to keep something in mind, a practise aimed at keeping your relation with god in every part of your day.

I’m not much interested in a super powerful god somewhere out there, and even less in our Christian big father that judge our behaviours.

But I’m intrigued by this obstinate practise of the Muslims. I often found myself thinking I should do something to remind to myself what really matters in life. It often happened that we get lost, and spend too much energy in silly things.

Let’s forget about what kind of god they are praying to and just focus on the practise. If you would pray 5 time a day, what would you focus on? I mean, let’s forget the word “pray” (that implies talking to somebody more cool and smart than you) and use instead meditation or concentration, or just “taking 5 minutes to think about who you are, what you really want to do and what are you doing”. This sounds interesting.

The relation between the Afghans and their religion is not so simple and as in many other Muslims states, is mixed with lots of hypocrisy. The social standards require you not just to follow some rules, but to believe and love god, or at least to show you do so. Once, in Teheran, an Iranian friend told me: “Only in Europe people can be real Muslims”. Yes, it sound wired, she meant to say that only in a country where you choose a religion you can really make it your own.

Afghans like to show they are wise and religious but it’s clear that many of their behaviours can’t be called like that. But Muslim countries still have a big appeal on me. Maybe is just the idea of thinking about your life as aimed at something deeper.

There always been an inner relation between artist and spirituality. In my notebook I wrote a little list of warnings. I have to focus more on working on a story (than taking pictures randomly at whatever I like), to improve the photoshop post-production of my pictures, to set and fulfil deadlines. Then I added a warning that reads “God”.

I didn’t mean anything religious by that. It was to remember not to look just for a good image but for something that mean more.

The muezzin is calling again… today I have a new city to explore: Herat, the city of poets.